Il passato glorioso dell’ Impero persiano, gli splendori degli scià , l’incontro con un popolo affascinante che sorprende fuori dai luoghi comuni.
Quelli a cui racconto dell’intenzione di partire per l’ Iran, senza tour organizzato, commentano con poca fantasia “ma siete matti?” Prometto che terrò un comportamento moralmente integerrimo e che non fotograferò stabilimenti di produzione nucleare.
Tuttavia, che l’Iran sia qualcosa di molto diverso da ciò che pervade l’immaginario collettivo occidentale, inizio a sospettarlo al momento della richiesta del visto d’ingresso.
E’ vero, la procedura è un po’ laboriosa, a seguito della prenotazione del volo e degli hotel occorrono un invito dall’Iran, la compilazione di un formulario un po’ invadente che chiede conto dei Paesi visitati e degli interessi culturali specifici, fototessere con velo nero in testa, però la gentilissima funzionaria del consolato, dopo aver accettato un pagamento con bancomat invece dei soliti versamenti su cc postale che si richiedono negli uffici italiani, in tempo reale appone sul passaporto un visto d’ingresso che è un capolavoro, con tanto di ologramma della fotografia e timbro argentato della Repubblica Islamica dell’ Iran.
Forse non è un Paese così arretrato come viene descritto. Ottenuto il visto, occorre preparare la valigia: il secondo sospetto, avendo visto l’eleganza delle lavoratrici del consolato, è che l’abbigliamento islamico sia piuttosto variabile dal Maghreb alla penisola arabica, al Libano, alla Giordania; mi documento un po’ su internet e opto per camicie lunghe su pantaloni e casacca stretta in vita, foulard scuro in testa.
Poi occorrono soldi contanti, euro e dollari, tanti quanti ho intenzione di spenderne per hotel, spostamenti, acquisti, perché l’ embargo imposto dagli americani ha paralizzato le transazioni con carta di credito, mortificando lo sviluppo commerciale e turistico del Paese, quando è invece di tutta evidenza che lo scambio commerciale e culturale crea emancipazione ed uccide gli estremismi. Nessuna vaccinazione obbligatoria, il livello sanitario ed anche quello igienico è piuttosto alto.
ROMA TEHERAN
Il volo Alitalia da Roma per Teheran parte la sera e arriva alle quattro locali. In aereo ci sono pochi italiani, sono quasi tutti iraniani e, sorprendentemente, cinesi; la Cina ed altri paesi asiatici sono grandi partner commerciali dell’ Iran.
Prima dell’arrivo l’hostess italiana annuncia che, in ossequio alle leggi della Repubblica Islamica, prima di scendere è necessario che le donne indossino il velo sulla testa, e lei stessa indossa il copricapo standard fornito all’ equipaggio per i paesi islamici dall’Alitalia, che vorrebbe essere elegante ma assomiglia più ad un preservativo che ad un velo.
I controlli sono piuttosto rapidi, a dispetto delle previsioni, e agli arrivi vediamo tanti iraniani che attendono i loro amici e parenti con mazzi di fiori, destinati anche agli uomini, che usanza delicata!
Nessuno aspetta noi, né con fiori né senza, nonostante dall’hotel dovessero venire a prenderci con l’autista, così prendiamo il taxi e per pochi euro ci mettiamo in viaggio verso il centro di Teheran; il percorso è lungo perché la capitale iraniana conta 10 milioni di abitanti, a seguito di un aumento selvaggio della popolazione negli anni successivi alla guerra contro l’Iraq, quando Teheran fu meta dello sfollamento di chi scappava dai bombardamenti nelle zone più vicine al confine, e poi negli anni successivi caratterizzati da una forte espansione industriale.
La fisionomia urbana notturna è vagamente kitch, con le strade, i ponti e le moschee tutte bordate di lucette al neon verde, azzurro e rosso che fanno un po’ luna park, e cozzano con la monotona uniformità dei palazzoni bianchi. L’hotel Niloo è un gioiellino, le stanze prenotate solo per la notte successiva sono pronte fin dalle 7 di mattina, e nel frattempo il giovane (notevole) alla reception, ci intrattiene in una piacevolissima conversazione in perfetto inglese.
Tra le varie richieste di informazioni turistiche, gli chiediamo quali siano i più importanti siti zohoroastriani da visitare, e lui tenta di mostrarceli su internet, ma incontra qualche difficoltà perché i siti sono oscurati dal regime, ma esiste un sistema per sorpassare i controlli, ci confida orgogliosamente che tutti gli studenti sanno come fare, e dal tono in cui parla inizio a capire che tra lui ed il regime c’è una forte frattura.
Commetto la prima gaffe dando degli arabi agli iraniani; mi risponde che gli iraniani non sono affatto arabi, sono nella cultura e finanche nella lingua (il pharsi non ha niente a che vedere con l’arabo se non per la similitudine dei caratteri) eredi dell’antica tradizione persiana, del più grande impero dell’antichità. Si intuisce la sua simpatia per l’antica religione monoteista zohoroastriana, ormai praticata da pochissime persone malviste dal regime islamico, fondata su un forte contatto con la natura, sulla scelta morale tra bene e male, sull’ uguaglianza dei sessi, sui tre principi morali del libro sacro dell’ Avesta: pensare bene, parlare bene, agire bene.
Ci spiega che Iran significa “Paese degli Ari”, perché i Pharsi sono indoeuropei, ariani, e questo segna un baratro culturale rispetto ai paesi arabi che circondano la Persia; qui scatta la mia seconda gaffe che indigna il mio interlocutore: chiedo se la radice della parola Iran sia la stessa di Iraq, come mi appare evidente. Con grande turbamento mi risponde che i due nomi non hanno niente a che vedere: basti pensare alla dolcezza del nome pharsi Iran (pronunciato come si scrive) e a quanto sia sgraziata la pronuncia araba dell’ Iraq (una specie di scatarrata che suona simile ad Hhhaarakii).
Evidentemente la guerra con l’ Iraq ha lasciato profonde le sue tracce nel cuore di una popolazione che ha visto cadere sui campi di battaglia un milione di giovani. Ancora oggi, ci spiega il giovane, a Teheran ci sono molte più donne che uomini a causa delle vittime di guerra, e non c’è chi non pianga un parente od un amico. Il tutto per niente, commenta senza retorica.
Prima di dormire tentiamo di telefonare in Italia, ma il cellulare è piuttosto inutile, perché non ci sono convenzioni di roaming, e la linea di skype anche nelle aree wi-fi tende a cadere, sospetto che sia volutamente ostacolato.
TEHERAN
Dopo poche ore di sonno, la sveglia suona tragicamente alle 10, e davanti all’albergo ci attende l’autista. Alì Reza avrà 40 anni, è nipote del generale di stato maggiore dello Shah, è nostalgico e devoto alla famiglia del deposto Reza Pahlavi, e parla senza peli sulla lingua del decadimento della società iraniana dopo la rivoluzione islamica.
Sostiene che durante il regime dello Shah l’ Iran era un ricco paese occidentale, con un alto tenore di vita degli abitanti e grande libertà; poi la propaganda dei mullah fece in qualche modo breccia nella popolazione, illusa che lo stato islamico avrebbe trasformato la Persia in una sorta di eden in cui la popolazione sarebbe stata sfamata, educata e curata gratuitamente dallo stato, ogni criminalità, corruzione e disparità sociale sarebbero scomparse: insomma la rivoluzione, che si è imposta velocemente a furor di popolo senza quasi alcuna resistenza e ha rovesciato il vecchio regime imponendo la legge coranica, è stata una pianta con i rami protesi verso il giardino di Allah ma con le radici ben salde in aspirazioni molto più materiali della popolazione, ben presto disillusa prima di tutto sul piano delle promesse sociali non mantenute.
La propaganda nazionalista è evidente in tutto il Paese, a partire dai grandi murales troneggianti sulle facciate cieche dei palazzi, con i volti dell’ onnipresente coppia degli Ahyatollah Komehini –Komenei, dei barbuti eroi della rivoluzione e della guerra contro l’ Iraq e in misura minore del presidente Ahmadinejad; i dipinti antiamericani stranamente sono piuttosto contenuti, Alì Reza ci dice che negli anni sono stati cancellati, e ci mostra solo un enorme murales con la bandiera americana con i teschi al posto delle stelle e scritte di propaganda inneggianti alla morte per gli USA.
Chiediamo al nostro autista che ne pensi del contestato presidente, ma lui fa le spallucce, dice che in realtà si tratta del male minore, è uomo di intelligenza modesta, che pare un burattino nelle mani dei potenti mullah. Ci racconta che gli studenti, i giovani, gli intellettuali, sono tutti contro il regime, ma a causa della repressione durissima non hanno la forza di organizzarsi; a volte la contestazione passa per un ciuffo ribelle che esce dal velo, per un paio di jeans più stretti, per un brano di rock o per la compagnia di un cane o di un gatto; Allah sa quando diventerà vera contestazione organizzata.
Guardo questi giovani per le strade di Teheran: le ragazze spesso bellissime, strette nei jeans infilati negli stivaletti e nelle eleganti casacche avvitate, hanno trovato un sistema per rendere sexi persino il velo imposto, facendosi un codo alto sulla testa e mettendoci sopra a mo’ di mantiglia quello che Alì Reza chiama ironicamente “il fazzolettino”; il trucco è sempre perfetto, le sopraciglia disegnate da una sottile matita, gli occhi grandi evidenziati dal kajak nero, le labbra grandi e sensuali col rossetto; molte hanno un cerotto sul naso, va di grande moda la chirurgia estetica.
Le donne si accompagnano tra loro per strada e nei locali, così come gli uomini, ma danno l’idea di essere emancipate e Alì Reza ci conferma che occupano anche posti di rilievo nella società civile; soffrono di qualche discriminazione stupida (come il divieto di guidare la bicicletta perché il movimento delle natiche durante la pedalata è troppo sensuale) ma si percepisce che vengono trattate dagli uomini con grande rispetto, più che maschilismo c’è separazione tra i sessi, pudore per le manifestazioni di affetto pubbliche tra due mondi che si toccano solo in privato. Si incominciano tra i giovani a vedere le coppie di fidanzati che escono da soli, ma mai mano nella mano, mai un bacio.
Le famiglie sono rigorosamente monogamiche e con un bambino, massimo due, molto ben curati; diversamente da quanto avevo potuto notare sia nel Maghreb sia nell’area giordano-siriana non ci sono famiglie numerose con stuoli di ragazzini. Lo stacco generazionale e sociale è forte: le donne anziane ( ma a dire il vero anche quelle giovani dei quartieri più poveri) sono quasi tutte vestite con chador nero che le copre dalla testa ai piedi, passano per strada schive nascondendosi alla telecamera, le ragazzine a volte truccate pesantemente anche per i gusti occidentali chiedono sfacciate di farsi fotografare con mio marito, che riscuote un successo strepitoso.
Teheran è brutta, una colata di cemento senza civetterie, ma ha alcuni straordinari punti di interesse. La nostra prima tappa è il complesso del palazzo pubblico e dell’abitazione privata dello Shah; il palazzo pubblico è sontuoso, ma kitch quanto le lucette al neon delle strade: una Versailles da parvenue con minuscoli specchietti argentati a riverberare la luce frammentata su tutta la superficie delle pareti e delle volte, ma con meravigliosi tappeti di seta su tutto il pavimento; a dire il vero la cosa che più mi ha colpito è stata una sala, direttamente adiacente a quella del trono, con il modernissimo studio dentistico privato dello scià che soffriva di mal di denti ed era così diffidente da non permettere al suo dentista privato di curare neanche la famiglia reale.
La residenza privata, un edificio moderno con un bel tetto apribile a comando sul cortile centrale nelle giornate d’estate, è molto più sobria, e le stanze dei principini o quelle di Farah Diba non sono molto differenti da quelle delle ricche dinastie delle democrazie occidentali. Nel bar-ristorante del parco del palazzo consumiamo un’ottima zuppa di lenticchie, una squisita purea di ceci e una schifosissima birra analcolica alla fragola.
E’ mezzogiorno e fa decisamente caldo (fortunatamente secco), ed io ho sbagliato completamente abbigliamento in relazione al clima, aggiungendo alla tortura imposta del velo e delle maniche lunghe anche quella volontaria di un maglione a girocollo, poiché credevo erroneamente che Teheran, circondata nelle foto da montagne innevate, avesse più o meno lo stesso clima di Torino in questa stagione; pare che un tempo fosse così, il clima si è molto modificato anche qui. La seconda tappa imperdibile è il museo nazionale.
Quando apprendono che siamo ospiti dell’ambasciata ci mettono a disposizione gratuitamente una guida solo per noi, che ci spiega dettagliatamente le meraviglie archeologiche contenute nel museo.
Il cilindro di Ciro, prestato per alcuni mesi dal British Museum, una piccola tavoletta cilindrica con scrittura cuneiforme con cui Ciro racconta della conquista di Babilonia e detta raccomandazioni sull’umanità con cui trattare la popolazione vinta, tanto da essere considerato il primo esempio di trattato sui diritti umani, attira frotte di visitatori locali, ma gli stranieri sono pressochè inesistenti, ad eccezione di una delegazione diplomatica cinese in abito mandarino accompagnata da alcuni solenni mullah. Penso che come ai tempi di Ciro anche oggi le dichiarazioni sui diritti umani non possono andare oltre alle raccomandazioni di principio, a causa dell’insufficienza coercitiva delle loro fonti del diritto.
Nel museo mi colpiscono soprattutto le raffinatissime ceramiche risalenti al 3000 a.c., le opere zoomorfiche provenienti dalla provincia di Gilan, le pietre nere elamite che indicavano i confini del regno, un peso “ufficiale” quasi perfettamente corrispondente ad un nostro kg, la più antica finestra di vetro del mondo, “l’uomo di Marde kemaki” che è una mummia del 1700 a.c. ritrovata in una miniera di sale del tutto intatta con i capelli perfetti e i vestiti di buona fattura (di un semplice minatore!) ben conservati, con stivaletti sagomati che potrebbero costituire un modello per gli attuali calzaturifici. Poi l’arciere di Susa, di ceramica policroma, un guerriero di bronzo bellissimo, i bassorilievi murali di Dario e Serse, e tantissimi altri capolavori dell’epoca achmenide.
Dopo un delizioso succo di melograno, l’ultimo giro per la città, a vedere la Azadi Tower, altissimo monumento dall’ architettura molto originale che rappresenta la porta della città, dono dello Shah e originariamente chiamato “ricordo dello Shah”, poi divenuto “monumento alla libertà” dopo la rivoluzione.
Passiamo la serata nella bella villa del nostro amico, nel quartiere delle ambasciate che dominano dall’ alto la città, e ci godiamo uno spettacolare tramonto sullo sterminato skyline di Teheran, mentre finalmente libera dal velo, posso permettermi anche una sauna e un tuffo in piscina.
TEHERAN – SHIRAZ
Naturalmente la domenica è un giorno lavorativo in Iran, e dedichiamo quest’ultima mattinata nella capitale per fare un giro di shopping nel quartiere dell’antiquariato e nei negozi di tappeti. Il negozio di Stato di tappeti è molto interessante; ci dicono che forse i tappeti costano un po’ di più rispetto a quelli contrattati nel bazar, ma non si prendono fregature, ci sono pezzi belli anche se non antichissimi (mai più di un centinaio di anni), il prezzo è circa un terzo rispetto alla corrispondente qualità che si può trovare presso gli importatori in Italia; inoltre hanno trovato un ingegnoso sistema per frodare il fisco italiano: i tappeti acquistati vengono inviati in valigia diplomatica al consolato iraniano a Milano, dove gli acquirenti possono comodamente ritirarli senza pagare imposte di dogana.
Dopo aver resistito alla tentazione del tappeto, è la volta dei più abbordabili acquisti nelle botteghe di polverose cianfrusaglie antiche, da cui ci si aspetterebbe di veder spuntare fuori il genio della lampada di Aladino; me la cavo con alcune mattonelle vecchie (o finte tali) con bei disegni di caccia al falcone, uccelli e fiori, con una pagine miniata di corano ottocentesco, nonché con un pesante pettine di ferro per tessere i tappeti che è uno splendido fermalibri; il venditore è un vecchio ebreo che con il suo fare suadente riesce a convincerti di aver fatto l’affare del secolo con quel pezzo unico tenuto da parte proprio per te, illustre sconosciuto.
L’imbarco per il volo per Shiraz riserva una sorpresa: le entrate dell’aeroporto sono differenziate per uomini e donne, per permettere la perquisizione da parte di personale dello stesso sesso. La mia valigia già strizzata al limite della capienza viene fatta completamente svuotare a causa di un sospetto pacchetto di pile duracel; le guardiane della rivoluzione sono molto più zelanti dei loro colleghi maschi. In compenso il volo pagato poche decine di euro è puntuale e con servizio di ottima qualità, le hostess sono eleganti e gentilissime (soprattutto con mio marito).
Arriviamo a Shiraz ormai al calar della sera, ma i negozi sono tutti aperti per le vie del centro e nei dedali del grande bazar, che a dispetto della confusione e della varia umanità che lo popola, è sicurissimo. Del resto ci spiegano che solo la settimana prima è stata eseguita la sentenza di taglio della mano per una decina di ladri. L’unico reale elemento di rischio per le strade delle città iraniane è l’attraversamento, perché i pedoni vengono letteralmente puntati dalle macchine, che accelerano in direzione dei malcapitati; quando mi hanno avvertito credevo che fosse uno scherzo, ma ho potuto constatare che è proprio così.
Peraltro c’è grande cortesia nei nostri confronti, qualcuno ci ferma incuriosito per offrirci aiuto, ci chiede di dove siamo, sorride benevolmente nel sentire che siamo italiani.
Dopo aver vagabondato nel bazar all’improvviso sbuchiamo sulla piazza che racchiude la meraviglia di Shiraz, resa ancora più straordinaria dall’illuminazione notturna: la moschea Nazir-ol-Molk, con la sua cupola ed i minareti di ceramiche policrome che sembrano usciti da una favola.
Mi sarebbe piaciuto visitarla, ma restavo un po’ intimorita davanti all’entrata non sapendo se fosse permesso ai non islamici, e poi vedevo che l’abbigliamento delle donne era particolarmente rigoroso nell’entrare nel complesso sacro ed io non avevo il chador; a questo punto è avvenuta una cosa davvero sorprendente: delle ragazzine di 16-18 anni mi guardavano e ridevano delicatamente tra loro, quindi si sono fatte coraggio e si sono avvicinate cinguettandomi in gruppo “chador, chador!” e mi hanno offerto in prestito il loro chador per poter entrare nel cortile e poi nella moschea, tutte divertite mi hanno aiutato in gruppo ad indossarlo mentre chiedevano dell’Italia, e hanno atteso che visitassi comodamente la moschea prima di restituirglielo!
Alla moschea si accede, previa deposito scarpe gratuito in una specie di spogliatoio in cui rilasciano il numeretto del guardaroba, in locali separati per gli uomini e per le donne, ma dalla descrizione di mio marito le due ali si equivalgono; dentro è tutto un luccicare di quei piccoli specchietti sfaccettati che riflettono luce argentata, che avevo già visto nel palazzo dello shah, e che qui ricoprono interamente le pareti e la cupola della moschea, mentre i fedeli pregano inginocchiati sui tappeti rossi.
Sono incuriosita da una ciotola contenente degli oggetti che sembrano piccole saponette, che i fedeli prelevano e poi ripongono dopo la preghiera; mi spiegano che si tratta di terra compressa proveniente dalla Mecca con sopra incise varie sure del Corano per meditazione.
Molti si fermano a baciare una copia del Corano racchiusa in una teca che sembra una tomba, dove gettano anche soldi per l’elemosina. Shiraz è città santa sciita e tra pochi giorni sarà la festa della commemorazione del profeta Hussein, così l’affluenza alle moschee è alta, e vi sono anche pellegrini in arrivo, alcuni dei quali curiosamente accampati in tende lungo le strade della città.
Torniamo in albergo molto tardi, mentre Shiraz è ancora piena di vita e i muhazin innalzano dai minareti le loro preghiere della notte.
Shiraz – Nagh-e-Rostam – Persepolis – Pasargadae – Isfahan
Di buon’ora incontriamo la guida che ci accompagnerà a visitare Shiraz e Persepolis. Siamo stati avvertiti dal nostro amico che si tratta di un’integralista religiosa, e difatti questa donna cinquantenne si presenta tutta avvolta nel suo chador nero, mio marito commette l’errore di darle la mano e lei si ritrae imbarazzatissima, ma subito dopo bacia e abbraccia me con grande espansività.
E’ una donna colta e ha studiato anche in Italia, ma è sinceramente integrata con il regime islamico, di cui apprezza anche i risvolti di politica sociale; è l’altra campana che mancava in un viaggio in cui tutti i nostri interlocutori sembravano decisamente distanti e critici verso il governo dei mullah.
Ci racconta ad esempio di come il sistema sanitario pubblico gratuito sia eccellente, di come il merito venga premiato nelle scuole e nelle università pubbliche che sono le migliori (ha due figli che studiano rispettivamente biologia molecolare ed ingegneria), anche se affiancate da un buon numero di università private.
Ritiene che non esista alcuna discriminazione nei confronti della donna che è rispettata e pienamente valutata anche nella società civile; in effetti notiamo che nei posti dove ci conduce è conosciuta e molto rispettata; ho quasi l’impressione che gli uomini abbiano un timore reverenziale nei confronti delle donne molto osservanti, specie se di una certa età.
Dopo averci portato alla moschea che avevamo visto ieri, dove si è soffermata a lungo in preghiera, ci spiega che Shiraz è la culla della cultura e poesia persiana, ed ospita le tombe dei maggiori poeti, Hafez e Sa’di. Visitiamo la tomba del poeta Hafez, disposta sotto un porticato che rappresenta le otto porte del paradiso, al centro di un delizioso giardino; Hafez, contemporaneo di Dante, parlava d’amore, ma le sue poesie si prestano ad una doppia lettura, quella più immediata che rinvia all’amore cortese e quella più difficile a sfondo teologico; ad ogni modo è molto amato ancora oggi dai giovani, che vengono sulla sua tomba ed esprimono un desiderio, poiché il poeta aveva dichiarato di essere certo di poter esaudire dal paradiso ogni desiderio di chi si fosse rivolto a lui; altri chiudono gli occhi ed aprono un libro ad una pagina a caso traendone una sorta di divinazione per il futuro.
Annesso alla sala da the del giardino di Hafez vi è un laboratorio artigianale dove molte persone stanno lavorando alla costruzione di un monumentale portale d’argento da donare alla città santa iraqena ove è sepolto Alì, la cui moschea è stata distrutta dai bombardamenti americani durante la prima guerra del golfo; non hanno parole tenere per gli americani, di fronte alla cui empietà hanno persino ritrovato unità d’intenti con i nemici storici iraqeni, e mi torna alla mente la frase che avevo sentito in Giordania da un taxista: “con mio fratello contro mio cugino, con mio cugino contro lo straniero”.
Di fronte al giardino di Hafez un pappagallino bianco ammaestrato a leggere la sorte pesca per me un bigliettino in cui mi si dice che sono una donna fortunata per tutto ciò che ho dalla vita, successo, amore, benessere, e che devo ringraziarne Allah aiutando chi è più sfortunato di me per evitare l’invidia maligna.
Usciamo dalla città attraverso una porta che recita i primi versi del Corano, e che simbolicamente affida con ciò Shiraz e chi vi entra ad Allah, e ci incamminiamo verso i grandi luoghi mitici dell’antica Persia per una strada desertica, dove si incontrano ogni tanto greggi di capre e accampamenti nomadi di pastori.
Non piove da un anno e la siccità sta divorando le scarse riserve d’acqua, i pozzi devono essere scavati sempre più profondi, eppure questa nell’antichità era considerata una delle zone più verdi e fertili della Persia, tanto che i grandi re persiani, che avevano quattro capitali in tutto l’impero, vi stabilivano la dimora in coincidenza con la festa zoroastriana di primavera, quando la natura era qui più rigogliosa che in tutte le altre provincie.
La prima tappa è Nagh-e-Rostam, dove scavate nella montagna si stagliano imponenti, in stile Petra, le tombe dei grandi re Achemenidi: Dario I il Grande, Serse, Artaserse I, Dario II. Quanta storia è sepolta in quella montagna! Sotto alle tombe è curioso notare, per noi romani abituati ai monumenti che celebrano la gloria di Roma, il rilevo del successivo periodo sassanide, rappresentante Filippo l’Arabo che sconfigge e prende prigioniero l’ Imperatore romano Valeriano, episodio ignoto nei testi di storia italiani, ma ognuno studia la storia che gli fa comodo.
Cinque km oltre, giungiamo a Persepolis, la mitica capitale persiana sede del grande palazzo reale di Dario. Ci si accede attraverso un viale circondato da 3000 alberi fatti piantare dallo shah per simboleggiare i tremila anni che ci separano dall’impero persiano, in occasione di una festa memorabile che durò una settimana e a cui furono invitati tutti i capi di stato e i potenti del mondo; poco dopo la rivoluzione spazzò via anche il suo impero.
A Persepolis sta scavando, come già in passato, proprio una spedizione archeologica italiana, dell’Università La Sapienza di Roma, e stanno venendo alla luce nuovi insediamenti; il sito è carico di quella suggestione unica che dà la grande storia che mette i brividi, e mentre varco le grandi colonne della porta d’accesso, la “Porta delle nazioni”, sormontate da una sorta di imponenti sfingi, ripenso al liceo, a quelle versioni di greco che rinviavano ad un mondo così distante, che ora è davanti ai miei occhi.
Il sito è visitato da pochissimi gruppi di studenti locali, da un gruppo cinese, e non ci sono altri turisti stranieri, cosa davvero incredibile, perché ci si aspetterebbe di vedere la coda dei bus che scaricano orde di visitatori a fotografare la culla della nostra civiltà. Il sito è un enorme spiazzo che ospita le rovine di tre edifici, la “sala delle cento colonne” con l’annessa sala del Tesoro, l’Apadana che è il più grandioso, ed il palazzo privato di Dario.
La cosa più bella sono i rilievi scolpiti sulla pietra che sembra grigio chiara ma che un tempo, lucidata, doveva apparire quasi nera, con il pavimento rosso ed il tetto e le colonne di legno; tra le raffigurazioni mi colpisce la processione dei satrapi provenienti da ogni angolo dell’impero per rendere omaggio a Dario, ciascuno con i tratti somatici, i vestiti ed i doni propri della sua regione di appartenenza, tra cipressi simbolo di immortalità e foglie di palma simbolo di prosperità; poi la fusione di medi e persiani in un solo popolo, con i guerrieri dei due popoli che sorreggono il trono del re, sormontato a sua volta dal simbolo di Zoroastro; la lotta del sovrano sotto forma di leone contro le forze del male identificate in esseri mostruosi.
Quale fosse il livello di raffinatezza si intuisce da alcuni dettagli, quali la finezza del vasellame conservato nel piccolo museo. Finì tutto quando Alessandro Magno, dopo avere conquistato Persepolis e aver fatto portar via l’immenso tesoro, probabilmente ubriaco durante una festa diede fuoco al palazzo dei re degli immortali.
La visita è completata dalla degustazione di una specialità di Shiraz, la faludeh, una specie di sorbetto gelato fatto di sottili tagliatelle di amido di riso e limone, particolarmente buono; intanto scrivo delle cartoline che spedisco in un piccolo ufficio postale che mi sembra particolarmente fuori dal mondo; infatti non arriveranno mai a destinazione.
Quindi l’ultima tappa nella storia: Pasargadae, dove non c’è anima viva se non un bellissimo cane maremmano tanto pauroso, e con grande malinconia si possono ammirare le poche rovine del palazzo di Ciro, del quale una sola colonna si staglia ancora diritta verso il cielo, e poi, solitaria nel nulla, la semplice tomba di Ciro, un tempo circondata da lussureggianti giardini. Lì giaceva il Re dell’Universo, titolare di tutti i titoli reali della Mesopotamia e dell’Asia Minore, re di Sumeri, degli Akkadi, degli Hittiti, degli Assiri e dei Medi, oltre che dei Persiani; mi ricordo di una versione di greco su Alessandro Magno che va su tutte le furie apprendendo che la tomba di Ciro era stata sacchegghiata dai suoi uomini.
Mentre lasciamo Pasargadae un tramonto splendido arrossa il cielo ed avvolge le montagne di una luce particolare; noi ci mettiamo in macchina per affrontare il lungo viaggio verso Esfahan. Durante le sei ore di viaggio abbiamo modo di conoscere meglio il nostro autista, uno dei personaggi più particolari incontrati nel nostro viaggio; è anziano, scuro di pelle, quasi negroide, con i capelli bianchi (una sorta di zio tom sudamericano), ci spiega che viene dal sud dell’Iran, verso il golfo persico, dove la popolazione ha caratteristiche somatiche molto diverse; ha fatto il marinaio sui cargo che partivano dal golfo persico ed ha girato il mondo, è una persona semplice ma con le idee molto chiare sulla libertà, che intende non come democrazia o liberalismo economico o diritto di partecipazione, o autodeterminazione dei popoli, ma semplicemente come diritto ad essere lasciato in pace nel proprio privato.
Sulle terribili note soul che ci accompagnano lungo il viaggio invece che le solite terribili canzoni locali, ci dice: “I mullah…loro bla bla bla…perché non sei andato a pregare, non ti abbiamo visto alla moschea?…io prego dove mi pare se mi pare”. Desidera una bella bottiglia di acquavite da bere alla faccia dei mullah, non tanto per l’acquavite in sè, ma proprio perché il divieto mette sete di anarchia.
Arriviamo a notte fonda a Esfahan, dove alloggiamo nell’hotel Abbasi, spettacolare ex caravanserraglio che è un monumento in sé, con un bellissimo cortile con giochi d’acqua tra colonne e le decorazioni specchi e cupole delle sue sale.
ISFAHAN
L’invenzione architettonica di un corridoio tra due portali gemelli per poter girare di 30gradi l’asse della moschea ed allinearla con la Mecca senza turbare l’armonia simmetrica della piazza, l’eco perfetta di una delle sale della moschea in cui il fruscio di una banconota rimbomba con grande potenza, il restauro del loggiato della scuola coranica che ha permesso di inserire pilastri di cemento armato nelle leggiadre originarie colonne di legno senza minimamente scalfirle, la luce del sole che penetra dal lucernaio di una cupola e che dà l’illusione ottica di disegnare sulla volta una straordinaria coda di pavone, il gioco di giallo, verde, blu delle maioliche antiche disposte secondo arabeschi sapienti-
Poi ancora palazzi, giochi d’acqua, antiche moschee. In una di queste, immersa in un mercato popolare di un quartiere povero in cui anche le ragazze giovani vestivano il chador e si sottraevano schive alla telecamera, mi ha colpito l’aula dove teneva lezione Avicenna, che in iraniano suona come qualcosa di simile ad Abu Sinnan; Avicenna è tuttora molto stimato nella cultura persiana, e durante un pasto Shirin mi raccomanda, secondo gli insegnamenti del filosofo, per una buona digestione di non mischiare cibi dal sapore freddo e dal sapore caldo ( categorie che non hanno niente a che vedere con la temperatura degli alimenti consumati).
Sul Ponte Khaju, che assomiglia a Ponte Vecchio, vedo l’unica coppia di ragazzi che si tengono per mano; sotto lo stesso ponte scatto la foto del profilo di due donne in burka, in fondo al susseguirsi delle arcate che le rende distante anni luce dal nostro mondo; davanti al ponte mi diverto a guardare le statue di due leoni con in bocca la testa dei nemici afghani.
Poi è la volta del quartiere armeno, la chiesa più importante è decorata con la dettagliata iconografia delle torture del martirio di un santo che hanno un vago gusto erotico, il museo attiguo è molto interessante, perché dedica una vasta sezione alla storia del genocidio del popolo armeno, che ha avuto proporzioni devastanti, e di cui normalmente si ignora persino l’esistenza, ma le foto di madri che sembrano scheletri che stringono a sé bambini dagli occhi disperati, restano nella mente.
Nello stesso museo è stato argomento di discussione un capello su cui è scritta in perfetta calligrafia una lunga frase; ha senso impegnarsi nella vita in un’opera del genere, per poter lasciare un nome da qualche parte, poter dire che si è stati presenti per un attimo nella notte dei secoli che passano, sia pure con una cosa stupida, piccola come un capello? Forse sì. Forse in fondo è tutto così piccolo che il valore relativo di ogni cosa della vita dipende solo dall’animo che ci si mette.
La città ha mille angoli da scoprire, e sarebbe bello percorrerla con le biciclette che sono gratuitamente messe a disposizione, se non fosse che l’uso è vietato alle donne, in quanto la pedalata produce dei movimenti troppo sensuali del posteriore. C’è tempo anche per l’acquisto del fatidico tappeto, contrattato sorseggiando molti the zuccherati con un tipico medaglione di zucchero caramellato che si mette in bocca lasciandovi scorrere sopra la bevanda; il tappeto è spettacolare e costa una cifra irrisoria.
La giornata si chiude con un primo giro di esplorazione al suck, giusto per adocchiare qualcosina qua e là e tornare con calma domani; nella confusione multicolore del mercato mi domando che genere di acquirenti possano avere tanti oggetti di artigianato tipico che sembrerebbero rivolgersi principalmente ad una platea di turisti che non c’è, ma evidentemente sono supellettili spesso un po’ kitch che rientrano anche nei gusti locali. La sera si chiude con l’odore di bruciato di uno dei magazzini dei dedali del suck andato a fuoco e l’immagine dei pompieri che con le pompe succhiano l’acqua dalla grande fontana della piazza Komeini.
Isfahan-Teheran-Roma
Puro e becero shopping selvaggio. Zuccherini caramellati da the, torroncini al pistacchio, quadretto miniato di avorio, con regalo da parte dell’artista di un disegno del poeta Hafef mirabilmente eseguito all’impronta, grande piatto tipico di metallo decorato con un disegno simile a murrine veneziane, camicione lungo da uomo che immagino non verrà mai indossato; il cuore resta con un pugnale antico spettacolare ma impossibile da importare e con un monumentale samovar bollato da mio marito come inguardabile.
Tra i banchi si provano pistacchi di vari tipi e qualità, si tratta, si viene spesso fermati non solo da venditori ma anche da curiosi che vogliono sapere qualcosa dell’ Italia e lasciare un messaggio di simpatia. Mentre assistiamo all’infruttuoso tentativo di un gatto di acciuffare un topolino dopo averci sadicamente giocato per un po’, facciamo conoscenza con una simpatica coppia di ragazzi. Lei insegna inglese, ed ha una perfetta pronuncia americana, come entriamo un po’ in confidenza le chiediamo come mai tutti lì si siano dimostrati così scollati rispetto al regime dei mullah eppure gli integralisti islamici hanno vinto le elezioni; con disarmante sorriso mi risponde: “anche voi avete votato Berlusconi”; ci chiedono di ricordare in Italia la bellezza e la cultura che abbiamo trovato in Persia e di non lasciare isolato un Paese che ha grande storia e grande desiderio di rinnovamento.
E’ l’ultima suggestione che questo grande Paese ci regala. All’aeroporto di Teheran, mentre aspettiamo lungamente il volo notturno per l’Italia, due chicche meritano di essere ricordate: le impeccabili chaise longue di pelle rossa per permettere il riposo nell’attesa, e l’incongruo bambolotto in vendita in un chiosco che è una sorta di Big Jim delle forze di pace internazionali, con tanto di armi e bombe di varia natura, molto politically uncorrect in un Paese antiamericano come l’Iran.
Conto i passi della fila sulla scaletta dell’aeroplano, e appena sono sul veivolo, che è convenzionalmente territorio italiano, in via liberatoria mi tolgo il velo e mi giro a baciare con sentimento mio marito, mentre le hostess ridono divertite. Viaggiare è essere liberi e anche apprezzare maggiormente la bellezza della propria libertà.
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