Ho fortemente desiderato questo viaggio nel Kurdistan iraniano, per due motivi principali: la curiosità di conoscere di più della cultura del popolo kurdo, per il quale la storia recente mi ha fatto nutrire grande simpatia, e la suggestione di mettere piede in alcuni luoghi mitici della grande storia antica.
Io amo molto l’ Iran, questo è il mio terzo viaggio in questo Paese, dopo l’itinerario classico che mi ha portato dalla capitale a Shiraz e Isfahan e naturalmente a Persepolis, e quello dedicato al deserto e ai luoghi della cultura zohoroastriana. Adesso il mio viaggio mi ha portato nel nord-ovest dell’Iran, la zona tra le impervie montagne del Kurdistan, verso il confine con l’Iraq, un luogo non usuale per il turismo, ma davvero interessantissimo.
Il Kurdistan non è uno Stato, ma un territorio diviso tra Turchia, Siria, Iraq e Iran, ma certamente è una nazione nel cuore del suo popolo, 40 milioni di persone che hanno unico ceppo etnico, una fortissima identità culturale, una propria lingua, sebbene con molte diversità dialettali, un proprio modo di concepire i rapporti sociali, una propria visione spiritualistica della religione islamica sunnita. L’opposizione da parte degli stati esistenti alla creazione di un Kurdistan sovrano è uno delle spine nel fianco del tormentato Medio-oriente.
Ho scoperto così, nel mio vagare di una settimana, un popolo fiero e veramente ospitale, uno scenario naturale incontaminato, testimonianze archeologiche affascinanti, luoghi e monumenti significativi e inaspettati.
SANANDAJ
Ho preferito risparmiare tempo volando verso nord ovest da Teheran e Sanadaj, vicino al confine iraqueno. Qui in Kurdistan le distanze non sarebbero enormi, ma le strade sono di montagna e si percorrono lentamente.
Sanandaj non è una città antica, ha solo 200 anni, e non è nemmeno molto bella, ma è il capoluogo del Kurdistan iraniano, e mi proietta subito in una realtà diversa da quella delle altre regioni dell’Iran. Intanto qui non si parla persiano ma kurdo, che è lingua completamente diversa, anche se il persiano è usato per comunicare con i forestieri. La mia guida persiana minimizza la differenza, tende a spiegarmi che i kurdi sono solo una varietà regionale di un’unica identità nazionale, ma gli abitanti del Kurdistan con cui riesco ad avere un qualche colloquio non mediato, in inglese ci tengono a far sapere che loro si sentono prima di tutto kurdi.
Gli uomini sono tutti nel lor costume tradizionale: larghi pantaloni dal cavallo basso che si stringono in giù, fermati in vita da un’alta fascia, turbante in testa, sul petto alcuni portano la giacca, altri una camicia con sopra un gilet che è una sorta di tuta, tutt’uno con i pantaloni. Le donne in gran parte non sono vestite di nero ma in abiti lunghi sino ai piedi dai colori vivaci e spesso dai motivi floreali. I kurdi sono alti, massicci, dal portamento fiero e dagli occhi penetranti, non saprei spiegarlo ma si intuisce che sono razza dalla tradizione valorosamente guerriera, e si intuisce anche, guardando il modo di rapportarsi per strada tra uomini e donne, che sono una società dai rapporti sani e paritetici tra i sessi.
Sono molto cordiali ed ospitali, inclini al sorriso, e un vecchio ci tiene molto a regalare a Giulietta (che nonostante non vi sia una prescrizione in questo senso per le bambine di 5 anni, assolutamente ha voluto mettere in testa un fazzoletto colorato e fa veramente tenerezza) una collanina, mentre un altro vuole essere fotografato insieme a lei, un altro ancora le fa una carezza: questi per me sono segnali importanti, ho sempre pensato che i popoli in cui i bambini sono ben accolti e coccolati sono ancora popoli sani. Molti ci fermano per chiedere di dove siamo e si dimostrano molto amichevoli vero l’Italia.
Faccio una passeggiata per le vie del centro, molto trafficate di macchine e affollate di persone e negozi dei bazar che espongono la loro merce colorata; io vengo attratta dallo street food; assaggio un tipico cibo locale, una sorta di piadina sottilissima impastata con menta e cipolla e cotta sulla piastra e spennellata molto abbondantemente di burro, e la trovo deliziosa; la accompagno con il primo di una lunga serie di succhi di melograna, un frutto che è quasi il simbolo dell’ Iran, e spremuto sul momento ha un sapore delizioso e proprietà antiossidanti, vero elisir di longevità. Altri street food tipici sono pistacchi, fichi secchi, zuppe di lenticchie o di fave e le barbabietole da zucchero glassate. Nei locali di spiedini di pecora fanno bella mostra di sè anche gli attributi dei montoni, che vengono considerati dai locali una leccornia speciale, nonostante siano vietati alla vendita.
Mi dirigo verso la Moschea Jame, molto grande e bella all’esterno, con la facciata di mattoni e inserti di maioliche azzurre e policrome, i suoi minareti gemelli ricoperti di maioliche azzurre e le sue mosse cupole, purtroppo è chiusa e non posso ammirare il suo interno.
A fianco della moschea sono colpita da un grande cartellone che riproduce una bambina, jeans e velo in testa, cuffie alle orecchie e corano in mano: l’immagine dell’idea che la religione e la tradizione possano andare di pari passo con la modernità.
Nei dintorni della moschea sorgono le botteghe degli artigiani del legno; i lavori di intaglio e la fabbricazione di raffinati oggetti in legno sono tipici di Sanadaj; belle le scacchiere con i relativi pezzi che sembra che siano il manufatto che va per la maggiore insieme ai dadi per un backgammon locale, le scatolette portaoggetti intarsiate o quelle piccole e allungate col coperchio scorrevole che sono portapenne.
Visito la casa Asef, una residenza di epoca safavide molto affascinante, con un hamman sotterraneo, un verde cortile con una vasca, su cui si affacciano due piani nelle cui stanze è ospitato il museo della cultura kurda, con tutti i costumi dei vari paesi sparsi tra le montagne di questa regione, i busti dei personaggi kurdi famosi (anche se per la verità a me completamente ignoti), le foto d’epoca che sono testimonianze storiche molto interessanti, la ricostruzione degli ambienti e degli strumenti di vita quotidiana delle case e delle botteghe del Kurdistan. Abbiamo la scuola di un tempo, con il maestro seduto per terra e gli allievi intorno, col libro sul loro leggio, la bottega del medico/speziale, la tessitura dei tappeti, la lavorazione del legno al bulino, l’intaglio della pietra, la fabbricazione delle scarpe tradizionali, il pane preparato in casa, la fabbricazione dei cestini di vimini e tante altre scene. Sono a metà tra il reperto storico e la descrizione della vita quotidiana di oggi, perchè alcune cose si sono perse, altre sono attività svolte ancora oggi con i medesimi gesti tramandati di generazione in generazione nei villaggi.Vi è anche una sala dedicata all’esposizione di oggetti di alto artigianato di legno che sono quasi di design.
HEWRAMAN (URAMAN)
E ora si parte verso l’interno delle montagne, un percorso affascinante su strade tortuose che si inerpicano in vallate dove il turismo specie straniero è davvero ancora cosa rara. I monti alti dall’aspetto carsico e brullo increspano il suolo e si susseguono a strette valli, il paesaggio è maestoso e molto bello, mi dicono che d’inverno qui è tutto coperto di neve. in prossimità della frontiera con l’Iraq incontro piccole carovane di muli carichi di merce, che fa la spola da un lato all’altro di una frontiera che divide il Kurdistan in stati diversi, lasciando intatta nella percezione del popolo l’unica nazione kurda a cui i locali sentono di appartenere. Il fenomeno è così evidente che devo pensare che sia un commercio accettato dalla polizia iraniana; alcuni giocano con noi frustando il mulo a superare la macchina ridendo bonariamente e mettendosi poi orgogliosamente in posa per una foto.
Così passano le lunghe ore del viaggio fino al villaggio di Uraman, o Hewraman. Questo villaggio quasi di frontiera, sul fianco di una montagna, è costituito di piccole case con terrazzamenti in pietra e terra, il tetto di una casa funge da cortile antistante la casa di sopra. Gli uomini indossano un costume molto particolare, oltrea i soliti ampi pantaloni legati dalla fascia in vita, portano il kolobal, una sorta di gilet di feltro di lana con due corni sulle spalle, mentre le donne anche qui hanno vestiti coloratissimi e belli, e accettano volentieri di farsi ritrarre in foto.
Il dialetto di Hewraman è un po’ il fiorentino della lingua kurda, la lingua più apprezzata dai poeti, ma ovviamente non sono in grado di coglierne la bellezza delle sfumature.
Colgo solo i sorrisi degli abitanti, che pur non avendo modo di comunicare (se nella più grande Sanandaj qualcuno in grado di comprendere l’ inglese si trovava, certo qui non parlano lingue straniere) mostrano anche a gesti la loro ospitalità.
Giriamo un po’ tra le case del villaggio, assistendo ad alcuni quadretti d’altri tempi, come due uomini intenti a ferrare un mulo, o due donne sedute sull’aia di casa intente a lavorare all’uncinetto le giveh, tipiche scarpe di cotone colorato di Uraman.
Una donna a cui chiediamo il permesso di una foto torna dentro a mettersi il vestito più bello e ad agghindarsi per noi.
I due o tre negozietti di prodotti artigianali vendono cose non certo cinesi: vasellame di terracotta ricoperto di feltro colorato di lana, borse di feltro, scarpe dai motivi colorati fatte all’uncinetto con la suola di gomma, piccoli oggetti decorativi fatti con la frutta secca, cappelli femminili tondi di feltro tutti decorati di perline o ornamenti luccicanti, piccoli flauti di legno,tappeti tribali di lana, cesti intrecciati ricolmi di melograne o frutta secca.
I prezzi sono talmente irrisori che ho paura di essermi dimenticata due zeri nel fare il conteggio, è come se la gente volesse ricavare giusto quello che serve per vivere, senza speculare sulla transazione.
In alto sul paese si trova la moschea sunnita, che mi piace nella sua semplicità, con le sottili colonne di legno come unico ornamento al suo interno, preceduta da una sala per le abluzioni forse anche più bella.
Qui incontriamo gli unici “turisti” di questa vallata, un gruppo di giovani kurdi venuti in viaggio da Kermanshah, che vogliono farsi una foto con noi che siamo molto più esotici della loro meta turistica.
Il piccolo albergo di pietra dove alloggiamo è esclusivamente per noi, e si aggiusta ad organizzarci una cena con degli spiedini di trota appena pescata, e per dolce una fetta di pane imburrato con marmellata di carote.
Ma il luogo legato alla religione più interessante da visitare si trova un po’ fuori dal paese, nel piccolo cimitero dove le tombe sono modesti cippi nella terra orientati verso la Mecca.
Qui sorge il santuario di Pir Shaliar, che altro non è che un piccolo mausoleo, quasi una casa, che contiene la tomba antica di un uomo retto considerato santo, ricoperta da un drappo di stoffa verde;
il suo interesse è legato al culto che qui vi si pratica, una sorta di sincretismo religioso innestato sulla base sunnita, di un luogo che ha assorbito nei millenni tutte le culture che si sono incontrate in questo crocevia di civiltà; tutto intorno al mausoleo strisce di stoffa legate agli alberi o in fili tra le rocce si consumano al vento, elemento tipicamente animista e buddhista, mentre a febbraio qui si celebra un particolare festival, una rappresentazione di un simbolico matrimonio in onore del santo, con sacrifici di animali, spartizione di un pane di frutta secca a forma di disco solare, e con un particolare culto dell’angelo, che ha degli spunti nella religione zorohastriana ma anche nel culto mitraico.
Da Pir Shaliar si gode di una vista bellissima sulla valle di Hewraman, con le alte montagne e il villaggio abbarbicato su di esse, anche se non mi azzarderei ad accomodarmi su una traballante panchina posta proprio sull’orlo del precipizio nel punto estremo del piccolo cimitero.
MARIVAN
A 60 km da Hewraman (ma che strada per arrivarci!) sorge Marivan.
Marivan di per sè non dice molto: una cittadona dove si intuisce una certa povertà senza la bellezza della vita rurale che dà dignità e fascino ancestrale anche alle condizioni modeste di vita; qui il panorama urbano è fatto di case anonime, piccole officine , un discreto traffico, un bazar che vende per lo più roba cinese per l’utilizzo quotidiano, un mercatino parallelo che è più che altro un gran capannello di uomini disoccupati, nei tipici vestiti scuri curdi, che parlano fitto tra loro e vendono e comprano roba usata aspettando di inventarsi un lavoro.
Ma basta uscire appena dal centro cittadino per ritrovare la natura che salva Marivan, per riempirsi occhi e cuore passeggiando dolcemente lungo le sponde del lago Zrebar, il più grande lago del mondo di acqua dolce non alimentata da fiumi, anche se a guardarlo non dà l’impressione di essere così grande, forse per via della vegetazione palustre che ne occupa una bella parte.
Il giallo e il verde delle fitte canne intorno alla riva contrastano con l’azzurro intenso dell’acqua e con lo sfondo delle montagne marroni; sullo specchio d’acqua nuotano tante specie di uccelli che non ho abbastanza cultura specifica per identificare, ma vedo dai cartelli che si tratta di un ecosistema protetto che è un paradiso ornitologico (oltre 160 specie di uccelli vivono qui, tra quelli stanziali e quelli che vi fanno tappa nei percorsi migratori, e io stessa senza sforzarmi troppo ne individuo subito diversi), ma anche un habitat ideale per molte specie di mammiferi, anfibi, rettili e pesci.
Il lago è molto frequentato dalla popolazione locale e anche meta di turismo delle famiglie del Kurdistan, che usano passare sulle sue rive piacevoli giornate con pic-nic o prendere le colorate barchette che vengono noleggiate.
Una caratteristica di questo lago è che ci sono alcune piccole isole al suo interno che fluttuano muovendosi secondo la direzione del vento, ma vengono intrappolate d’inverno, quando fa molto freddo e la sua superficie ghiaccia completamente; questo lago non ha fiumi tributari, è alimentato completamente da sorgenti sotterranee e dalle acque piovane, e questo spiega perchè le sue acque siano così fresche e pulite, ed è vietato qualsiasi sfruttamento che possa incrinare la perfezione dell’ecosistema.
Dopo un po’di tempo passato a rilassarmi sulle rive del lago, facendo finta di fare ginnastica con la serie completa di attrezzi messi a disposizione di tutti come in un parco giochi per adulti, e sorseggiando un delizioso succo si melograno, decido di anticipare la tappa successiva, affrontando il lungo viaggio verso la zona di Kermanshah e concedendomi più tempo per il villaggio di Palangan, e questa si rivela una scelta azzeccatissima.
La parte più emozionante del mio viaggio sta per cominciare…
SEGUIMI NEL MIO PROSSIMO POST “TRA I MONTI DEL KURDISTAN: PALANGAN, KERMANSHAH, HAMADAN”
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H letto attentamente ogni parola e mi sono lasciata trasportare. Però mi hai lasciata a metà adesso….voglio sapere come continua o meglio come inizia veramente questo viaggio sorprendente! Mi vado a cercare la seconda metà 😉
Dev’essere stato un viaggio spettacolare. Mi piacciono le terre un po’ “difficili” e della definizione un po’ ardua da dare. Complimenti per la scelta della destinazione!
Ma che meraviglia. Riesci a comunicare un grande amore per l’Iran con le tue parole. Da un viaggio del genere si torna decisamente più ricchi e consapevoli. Complimenti, davvero!
Che viaggio strepitoso che hai fatto. Sono luoghi che amo tanto ma che mi intimoriscono allo stesso tempo. Complimenti per la scelta che hai fatto, dimostra che sei una viaggiatrice e no una turista. Brava
Complimenti: riesci a descrivere con tratti così vividi che mi pareva di essere lì con te a scoprire i villaggi e le persone!
Che viaggio meraviglioso e che belle considerazioni hai fatto. Sinceramente, mi è venuta voglia di visitare questa parte di mondo così poco battuta dal turismo. Mi ha molto colpito quello che hai detto sui popoli che hanno contatto con i bambini e mi è venuto in mente un ricordo assurdo: ero in Egitto e alcune donne italiane rimanevano sconvolte dal fatto che gli egiziani si permettessero di avvicinarsi ai loro figli: temevano fossero potenziali pedofili! Io le guardavo con gli occhi sgranati… Come te, penso che il desiderio di contatto con i bambini, il permettersi ancora una carezza e un sorriso ai figli degli altri, sia segno di grande civiltà.
Io l’ho notato a Cuba, la mia bambina di 3 mesi passava di braccio in braccio con un trasporto di affetto corale, l’ho visto in Vietnam, in Laos, non casualmente I posti che ho amato di più e dove ho trovato più vero il contatto con la gente. In alcuni paesi molto “evoluti” invece c’era solo il fastidio per l’esuberanza dei bimbi (mitico ik cartello “cani molto benvenuti, bambini accettati”) o la paura di un gesto improprio.
Ho letto con molto interesse il tuo racconto. Il Kurdistan è decisamente una meta insolita e proprio perché poco conosciuta ha un fascino magico. E’ bello leggere questi racconti di viaggio a stretto contatto con la popolazione locale anche perché aiutano ad aprire la mente e ad uscire dai soliti preconcetti. Ti seguirò nella prossima tappa 🙂
Che bello leggere di questi popoli che sembrano quasi dimenticati dal mondo. Devo dire che il medio oriente mi affascina sempre moltissimo, pur non essendoci mai stata, ma questa zona in particolare mi ha davvero incuriosita. Hai un modo delicatissimo di raccontare che mi piace moltissimo e rende ancora più interessante il tutto.
Che meraviglia, non ho mai preso in considerazione l’Iran, ma il tuo racconto mi ha fatto innamorare di questo popolo dal primo istante, sarà per la donna che si è messa l’abito più bello per farsi fare la foto o il cartellone della bambina in jeans e velo, non so, ma già amo questo popolo!