Giorni 1-2: ROMA – JOHANNESBURG – BOTSWANA: TULI BLOCK
Per arrivare all’estremo sud dell’Africa occorre volare verso nord, Munchen, e da lì fare rotta per Johannesburg. Che la realtà africana sia incredibilmente ricca di sfaccettature si capisce già da un dettaglio in viaggio: l’assistente di volo annuncia che per ogni necessità è presente personale di bordo che comprende, oltre al tedesco e all’inglese, una decina di lingue parlate dalle varie etnie in Sudafrica. All’aeroporto di Johannesburg troneggia un po’ ovunque il volto di Nelson Mandela (sulle carlinghe degli aerei, in una gigantografia appesa, in un negozio di medaglie commemorative) e questo dà la misura dell’importanza che quest’uomo ha avuto nel compiere un’impresa straordinaria, perché è come se l’apparthaid non fosse mai esistito, sembra non aver lasciato rancori profondi e davvero oggi bianchi e neri convivono con naturalezza e rispetto in un’unica nazione. Certo la povertà segna le differenze, e poveri sono soprattutto i neri, quelli che abitano negli sterminati sobborghi della capitale, fatti da lillipuziane ma dignitose casette con una fettina di terra intorno e riparate da terrapieni dalla vista indiscreta di coloro che come noi attraversano con la macchina la città. Mi sposto all’aeroporto secondario di Lanseria, da cui inizia la mia avventura con il Cessna 210, noleggiato per poter gustare appieno la libertà dei grandi spazi, avvantaggiandomi un po’ sulla tirannia del tempo scarso che ho a disposizione. Cerco con lo sguardo un pilota namibiano nero, e con sorpresa mi trovo di fronte ad un quarantenne biondo e con gli occhi azzurri.Ole, il mio pilota e guida, è un personaggio interessante, figlio di un missionario tedesco cacciato dal Sudafrica perché predicava contro l’aparthaid, cresciuto in Namibia, laureato in Zambia in biologia e zoologia, ha lavorato con il governo per dieci anni trasferendo animali in sovrannumero nelle zone da ripopolare sparandogli anestetico dall’aereo e quindi inseguendoli e catturandoli, ha fatto l’esaminatore per i ranger dei parchi naturali abilitati ad accompagnare a piedi armati i visitatori, infine ha aperto la propria compagnia aerea e gira l’Africa su e giù con il Cessna. Volare su questo aereo giocattolo è uno spasso, ci si alza e abbracciano dall’alto la varietà dei panorami del continente nero, si plana a bassa quota e si osservano i branchi di animali che corrono nella savana, cullati dal vento riusciamo perfino ad addormentarci. Siamo alla fine della stagione secca, e il terreno arde di sete, è pochissimo il verde e voliamo sopra distese marroni maculate di cespugli secchi, con i corsi d’acqua interamente prosciugati che lasciano spazio a sentieri naturali per i fuoristrada. Ogni tanto noto degli strani cerchi verdissimi, che sembrano fatti dagli extraterrestri come le linee di Naxca, e Ole ci spiega che sono aree coltivate la cui strana forma deriva dal sistema di irrigazione. Per lo più però il terreno è incolto e la presenza dell’uomo si fa sentire molto poco, del resto il Botswana è un paese scarsamente popolato e regno incontrastato degli animali della savana. Ci dirigiamo a Nord e dopo alcune ore di volo atterriamo sulla pista in miniatura di Lamporo Valley, nella zona sud-est del Paese, il Tuli Block; l’aeroporto è un capanna di paglia in cui lavorano due agenti, che sono molto gentili e calorosi con noi; gli chiedo se c’è molto turismo, rispondono di sì, nella giornata di oggi ben otto persone! I bagagli vengono caricati su un fuoristrada da due operatori del lodge a cui siamo diretti, e dopo esserci spontaneamente diretti ad una caserma che si trova ad alcuni kilometri dall’aeroporto per farci vistare i passaporti, ci mettiamo in viaggio per il Mashatu Main Camp. Il lodge è un piccolo villaggio curatissimo ed integrato nell’ambiente di un’enorme riserva privata, solo un po’ troppo perfetto perché i tempi sono programmati e nulla è lasciato all’improvvisazione personale. Le escursioni in fuoristrada sono all’alba e prima del tramonto, perché i momenti meno caldi sono quelli di maggior attività degli animali, che nelle ore più assolate dormono; ci adeguiamo anche noi, durante il giorno ci rilassiamo nel lodge, cosa che fa anche piacere per spezzare i ritmi di vita un po’ troppo frenetici a cui siamo abituati. Ci si muove in fuoristrada guidati da un ranger esperto e dalla guida, che battono la savana alla ricerca delle tracce degli animali; naturalmente nulla è scontato, e non si sa mai che cosa si potrà incontrare. Noi siamo particolarmente fortunati e già dalla prima escursione abbiamo un campionario completo di tutta l’incredibilmente varia fauna della riserva. Gli incontri più usuali sono con gli impala, piccole gazzelle che pascolano a gruppi, sempre con i sensi vigili per la paura dei predatori; impariamo a distinguerli dai kudu, molto simili ma più minuti, e dalla grande antilope, piuttosto imponente ma non per questo immune dal pericolo felino. Poi ci sono le zebre, che sono proprio suggestive con quelle loro strisce tutte diverse l’una dall’altra; nel lodge ci sono alcune foto d’epoca che rappresentano pionieri che cercano di utilizzare le zebre al posto dei cavalli per trainare i carri, ma con scarsi risultati, perché questi animali sono risultati non addomesticabili. Da ben lontano si riesce ad intravedere il lungo collo di una famigliola di giraffe che brucano le foglioline tenere sulla cima degli alberi, ci avviciniamo sottovento per non destare sospetti, ma i tre se la danno a gambe levate, e che gambe! Non solo il collo è lungo, a dispetto della mole questi colossi erbivori sono molto veloci. Poi è il momento dell’incontro con lo struzzo, che becca un po’ di paglia e un po’ di sassolini (non per niente si dice avere lo stomaco di uno struzzo), poi dai cespugli spunta anche la struzza con una decina di struzzetti tutti in fila, e tutta la famiglia si allontana tutta fiera per una passeggiata. Un’altra coppia di uccelli coloratissimi con il loro pulcino si allarma al nostro passaggio, e il papà si piazza davanti alla nostra auto starnazzando per farci allontanare dal suo piccolino. Mi incanto ad ammirare un branco di babbuini che…bah non mi viene un verbo adatto se non “stanno vivendo” : non pascolano come gli impala a cui si accompagnano per motivi di reciproca convenienza, non cacciano e dormono come i felini, loro conversano, si accarezzano, giocano, sono così umani e nello stesso tempo così lontani da noi, come l’Africa. Difficile pensare che veniamo tutti da là, che un giorno remoto ci aggiravamo nella savana come i babbuini, un po’ prede e un po’ cacciatori, innocenti parti di un ecosistema inviolato. Una mamma porta il suo piccolo sulla schiena, lui è addormentato e l’abbraccia con grande tenerezza. Le femmine hanno il culo completamente senza peli e arrossato, da ignorante chiedo alla guida se siano tutte malate di rogna, ma si tratta di un richiamo sessuale irresistibile per i maschi, del resto anche i nostri culi nudi sono considerati molto attraenti. Ad un certo punto si sente nell’aria un richiamo insistente di certi uccelloni dal nome impronunciabile; la guida si mette subito sull’allerta e ci spiega che quei volatili usano avvertire con suoni diversi a seconda dei pericoli che avvistano (serpenti, leoni, iene, rapaci), e in questo caso nelle vicinanze dovrebbe esserci un felino: difatti dopo un po’ di perlustrazione, ci troviamo di fronte ad una coppia di leoni che, dopo aver mangiato un fagocero (una sorta di cinghialetto selvatico) sta dormendo beatamente. Il leone non è particolarmente imponente visto così da vicino, non c’è forte dimorfismo rispetto alla leonessa, in particolare la criniera non è tanto spettacolare, ma la guida ci spiega che il pelo della criniera si fa folto invecchiando, e i giovani leoni sono meno crinuti. Sulla carcassa del fagocero sta in posa plastica un fronde avvoltoio nero, mentre decine di suoi compari, esattamente come li si immagina, sono tristemente appollaiati in attesa sui rami di un albero spoglio. Continuando il nostro safari avvistiamo un grande branco di gnu, grosse mucche cornute che la guida ci dice non essere particolarmente intelligenti e quindi facili prede per i carnivori, e poi ancora dei bisonti al pascolo le cui sagome scure si stagliano quasi all’orizzonte, dove li lasciamo volentieri perché una carica di questi bestioni non è esattamente uno scherzo. L’emozione più grande è data da ben cinque leopardi, padre, madre e tre cuccioli di diversa età, che si stanno dividendo una preda; l’avvistamento ha dell’incredibile, con il ranger che si guarda all’orizzonte e scorge il leopardo su un albero a centinaia di metri di distanza; quando gli chiedo come faccia mi risponde che conosce tanto bene il paesaggio che si accorge subito intuitivamente quando c’è qualche minimo dettaglio diverso. I leopardi sono bellissimi a vederli da vicino con quelle loro pellicce maculate, il passo felpato, il muso da teneri gattoni che fa venire voglia di accarezzarli. Lì vicino , su un albero tutto secco, sono in attesa decine di avvoltoi, che non appena i leoni si fanno da parte sazi, si alzano in volo con le grandi ali nere e in piccoli giri circolari atterrano su quello che rimane della carcassa. La sera cala quasi all’improvviso, e riprendiamo la strada del ritorno, ma facciamo ancora in tempo ad incontrare un cucciolo di iena che si sta scavando una tana nella terra, rotolandosi interamente nella polvere fino a scomparire alla vista; la iena è un animale antipatico nell’immaginario collettivo, per la sua crudeltà (e doppiamente antipatico a me perché assomiglia ad un cane e non a un gatto come i leopardi). basti pensare che se nascono due figlie femmine la madre ne uccide una, ma in realtà è solo una legge di natura cheassicura la sopravvivenza della specie, e le iene hanno un grande spirito di gruppo, grazie al quale cacciano in branco in maniera organizzata e sono temibili anche per i leoni, sui quali possono avere la meglio quando si contendono una preda. Al lodge mi aspetta un’ottima cena, seguita da canti e balli tipici del personale della struttura, che si è organizzato in un coro polifonico di tutto rispetto.
Giorni 3-4 : LIVINGSTONE – CASCATE VICTORIA
Dopo due giorni di safari, è il momento di riprendere il mio Cessna, alla volta di una meta completamente diversa. Il paesaggio in volo diventa sempre più verde man mano che voliamo verso il fiume Zambesi, che segna il confine tra Botswana, Namibia, Zambia e Zimbawe; il pilota scivola d’ala e si abbassa per un volo scenico, virando a destra e a sinistra per permetterci di abbracciare con lo sguardo il corso del fiume e i branchi di elefanti, impala, zebre, gli ippopotami che fanno il bagno. Poi il fiume si strozza in un canyon in prossimità del confine tra Zambia e Zimbawe e dà luogo a quello spettacolo formidabile che sono le cascate Victoria. Anche se la portata delle acque è ridotta in questo periodo dell’anno, il fragore del salto e la nuvola di acqua vaporizzata che si estende su una superficie vastissima sono notevoli. Peccato non poter scendere a volo d’angelo, gli elicotteri hanno l’autorizzazione a volare a quota più bassa e non si può interferire. Dottor Livingstone, I suppose, Facciamo conoscenza con il suo (brutto) monumento appena atterriamo all’aeroporto di Livingstone, in Zambia, e paghiamo 100 dollari per un visto di un giorno di permanenza, multiplo perché per attraversare il ponte e vedere le cascate dal lato Zimbawe è necessario tornare a passare il confine verso lo Zambia. L’autista di Livingstone che ci aspetta all’aeroporto per condurci al nostro hotel ci fa molta tenerezza; si accalora a farci da guida tra i “monumenti storici” di un paesotto di basse case anonime, quasi baracche, tra cui individua il primo ospedale, il primo ufficio postale, la prima missione; di missioni, noto, ce ne sono tante, lungo la via principale si sussegue una quantità infinita di chiese dai nomi vieppiù fantasiosi. Il nostro hotel è il famoso Royal Livingstone, in prossimità delle cascate, un elegante e ricercato edificio coloniale con uno stupendo parco con piscina sullo Zambesi. Vengo accolta con un regalo speciale: un invito ad un tè con buffet tra almeno un centinaio di torte diverse. Come si fa a resistere? Odio quella consapevolezza propria solo del genere umano che le torte ingrassano e che ho accuratamente selezionato nel mio piatto le più dannose. Il posto è incantevole ed è un peccato essere arrivata di pomeriggio e non poterlo sfruttare di più, ma devo scegliere tra l’oziare tra le amenità dell’albergo e vedere le cascate, e quindi mi incammino lungo il sentiero nel parco dell’hotel, disseminato di sculture di metallo rappresentanti a grandezza naturale la fauna locale, e in 20 minuti arriviamo alle cascate; c’è un percorso con alcuni begli affacci sul lato Zambia e la possibilità di saltellare sulle rocce nel fiume fino quasi ad affacciarsi sul bordo del salto nel suo punto più tranquillo, ma ci rendiamo conto che lo spettacolo più maestoso è sul lato Zimbawe. Evitando l’abbordaggio dei molti venditori di artigianato con merci troppo simili a quelli dei nostri vu cumprà, torniamo in hotel per gustarci una birretta fresca lungo il fiume, miracolosamente senza l’ombra di una zanzara, quindi mi ritiro in camera, dove mi attende ancora un bel piatto di cioccolatini con gli auguri per uno splendido soggiorno. Non si butta via niente. Sveglia di buon mattino alla volta del confine con lo Zimbawe, dove mi aspetta, per attraversare il solo ponte che porta all’altro lato delle cascate, alla cittadina di Victoria, una fila lunghissima alla dogana con un modulo incongruo da compilare e il pagamento del visto. Però lo spettacolo del “salto del diavolo” è davvero imperdibile!
Giorno 5: KALAHARI
Riprendo soddisfatta il volo diretta in Botswana, verso il margine del Kalahari, che si estende principalmente in Namibia. I paesaggi verdi si inaridiscono sempre di più fino a dar luogo ad una distesa marrone di terra arsa, roccia e cespugli secchi. Il lodge, il Kalahari Plains Camp, è meno lussuoso di quello precedente, ma occorre considerare che per portare cibi freschi qui occorre che si alzi appositamente in volo un aereo; la veranda dà sul nulla della terra secca e questo per molti è suggestivo; volendo si può dormire sul tetto della capanna, ma fortunatamente non ho ceduto a questa suggestione, perché nel deserto l’escursione tra la temperatura notturna e diurna è fittissima e di notte si muore di freddo anche all’interno sotto il piumone. La sera si è confinati nel lodge, vietato uscire da soli, si deve essere scortati verso i luoghi di ritrovo comune per sicurezza, nel caso in cui dovesse esserci un leone o un elefante dovremmo essere salvati da una cameriera disarmata. Le istruzioni comunque sono chiare: in caso di grosso gatto mai farsi vedere con un comportamento simile a quello della gazzella ma con minore velocità; il felino deve percepirci non come preda ma come minaccia oppure oggetto non interessante, quindi occorre rimanere fermi e fissarlo negli occhi, In caso di elefante che carica, invece, scappare velocemente. Se si è incerti nell’identificazione dell’animale come leone o elefante, credo che sia lecito gridare. Il safari in fuoristrada rivela la presenza della stessa fauna già incontrata nella tappa precedente, ma un po’ più scarsa perché la zona è più arida. Ogni tanto all’orizzonte si intravedono colonne di fumo nero di fuochi spontanei nati da questa terra secca che si perdono in mulinelli trasportati dal vento. Più interessante, anche se tanto turistica, è la passeggiata col boscimane. Intanto ho imparato che boscimane è la traduzione storpiata di bushman, uomo dei cespugli, un po’ come siuscià. La mia guida è un ragazzo giovane, piccolino e con l’addome prominente scalzo, in abiti tradizionali, una pelle cinta sui fianchi e un copricapo tribale, e una serie di armi e strumenti di cui ci deve mostrare l’uso nel corso della passeggiata. L’autenticità è un po’ offuscata dal suo ottimo inglese, ance se ci spiega che la sua lingua, ormai in estinzione, è studiata da glottologi di tutto il mondo per la varietà dei suoni emessi, basti pensare che esistono sette tipi diversi di schiocco che si aggiungono a vocali e consonanti. Nell’aerea del Kalahari dove mi trovo è rimasta solo una comunità di 400 boscimani, in costante diminuzione. La loro vita tradizionale è senz’altro molto integrata nella natura, che è maestra di vita più di qualsiasi scuola, e i saperi vengono trasmessi ai piccoli dalle mamme e poi dai papà, tutta la comunità passa molto tempo con i bimbi per educarli collettivamente e farli crescere in armonia con l’ambiente. Prima di partire il ragazzo ci invita a raccoglierci in preghiera insieme a lui per chiedere la protezione dei fratelli e delle sorelle, cioè degli spiriti degli antenati a cui questi boscimani si rivolgono in tono religioso. Cammina a piedi nudi tra le pietre e i piccoli cespugli nella steppa e ogni tanto si ferma per farci osservare qualcosa dei suoi tesori o dell’ambiente. Una corazza di tartaruga ha la doppia funzione di ciotola e copricapo, un uovo di struzzo forato e svuotato serve come thermos per tenere al fresco l’acqua. Il piccolo arco di legno e tendine è lo strumento principale di caccia, con le frecce dalla punta intenta nel veleno ricavato da certi alberi; mi meraviglio che sia inarcato nella direzione del tiro prima di tendere la corda, cosa che lo rende meno potente, ma giustamente mi fa notare che è piuttosto inutile tirare ad un animale lontanissimo, che ferito può continuare a camminare anche per lungo tempo facendo perdere le tracce; i boscimani inseguono pazientemente le loro prede dopo averle colpite, per ore ed ore, anche per giorni, allontanandosi nella steppa che a me appare tutta uguale ma che loro conoscono in ogni palmo di terra; per comunicare a distanza hanno uno strumento musicale consiste in una sorta di grossa pala legata ad una corda di pelle, che fanno roteare nell’aria producendo un suono che si spande rimbombando sino nelle lontananze. L’uomo dei cespugli ci insegna a costruire un’efficiente trappola per uccelli, usando come esca un pezzetto di resina tratta dalla corteccia degli alberi, che attira molto questi animaletti anche quando è essiccata, ed un ingegnoso sistema di corde, nodi e legnetti. Quindi è il momento dell’accensione del fuoco con due bastoncini di legno di diversa consistenza, di cui il più duro viene fatto roteare con le mani all’interno di un piccolo incavo sull’altro, fino a quando il calore sviluppato dal movimento incendia con le schegge del legno morbido la paglia posta lì sopra. L’operazione dura parecchio, non è semplice nemmeno per l’esperto, ma alla fine ne esce un bel fuoco; io penso che dovrei rassegnarmi a mangiare crude le mi prede. Mi mostra una capanna di paglia che i boscimani, dalle tradizioni nomadi, costruiscono in un giorno come riparo e poi abbandonano quando riprendono il cammino. Quindi arriva il momento dello scherzo al turista :non so come, mi convince ad assistere ad una dimostrazione di caccia e ad arrostire e mangiare insieme la preda, e si affaccenda intorno ad una tana con una lancia, facendo finta di aver preso una sorta di coniglio locale, e quando gli chiedo di risparmiarlo mi dice che ormai è ferito e va ucciso e che non possiamo offenderlo con un rifiuto; quindi tira fuori e scaglia verso di me un peluche, con grande sollevo di tutti, anche se mi sento un po’ pollo ad aver cercato a tutti i costi un’avventura stupida solo per il gusto del pittoresco. Molto meglio sentirmi piacevolmente stupida giocando col boscimane alla versione locale della morra, che invece di pietra carta e forbice prevede leone, gazzella e savana. E a questo punto, visto che ho accettato di essere turista polla, ci sta pure il farmi cedere dal boscimane lungo il percorso per tornare a casa, il copricapo con le corna di kudu e la pelle da indossare i fianchi.
Giorni 6-7-8: DELTA DELL’OKAVANGO
Lasciamo il Kalahari per volare verso il Delta dell’Okavango, la zona dove le acque del grande fiume si ramificano in una miriade di piccoli canali e lagune, attraverso una lussureggiante vegetazione di canne e papiri, e una fauna ricchissima di ogni specie. E’, dopo tanta aridità della terra, uno spettacolo di una bellezza incomparabile. Le acque basse e limpide sotto le quali si intravede il fondo sabbioso sono piene di meravigliose ninfee di tutti i tipi: ci sono i gigli d’acqua (di cui imparo ad infilare collane di una bellezza fuggevole, poiché una volta colti in meno di un’ora si richiudono) bianchi con sfumature rosa o azzurre a seconda che siano stati impollinati meno; insieme ai gigli ci sono le gialle pistole d’acqua (strizzi il calice del fiore ed esce lo spruzzo tra i pistilli), ed altre piccole ninfee fucsia che si difendono con una spina nascosta tra i petali. Sulle larghe foglie delle ninfee si posano piccole simpaticissime ranocchie di tutti i colori grandi quanto un’unghia. Scivoliamo sull’acqua a bordo di un mokoro, la tradizionale canoa scavata in un tronco d’albero, stretta e lunga per passare nei piccoli canali in equilibrio piuttosto instabile, accompagnandoci con un lungo e sottile remo. Al nostro passaggio si aprono le fitte barriere di papiri alti anche tre metri, e le canne con le “code di gatto”. Il rematore indigeno scruta con attenzione le acque. Il pericolo non sono tanto i coccodrilli quanto gli ippopotami che sono aggressivi e pericolosissimi a discapito della loro fama di grossi pachidermi paciosi: la maggior parte degli incidenti mortali nei safari sono infatti dovuti proprio ali ippopotami. Un elefantone si immerge nell’acqua a pochi metri da noi, e gli cediamo volentieri la strada; è l’unico incontro grosso di questa gita in barca, ce è un mezzo più adatto ad ammirare le meraviglie dei piccoli dettagli della natura. Non così la veloce barca a motore su cui viaggiamo nel pomeriggio, che vola quasi a pelo d’acqua svoltando rapidissima per le curve sinuose del fiume; con la brezza tra i capelli ci fermiamo in una laguna incantevole su cui volteggiano stormi di grandi uccelli multicolori; il lodge ci ha riservato una vera chicca: un tavolo piantato nell’acqua, apparecchiato con vasellame di peltro e posate, leccornie e bevande per brindare a piedi nudi nell’acqua attendendo che cali il sole. E quando arriva il tramonto è pura magia: all’improvviso l’immenso orizzonte si infiamma di un rosso mai visto prima e l’enorme palla si abbassa nel cielo lasciandolo ancora illuminato dal suo passaggio mentre gli alberi e le canne stagliano la loro sagoma scura che si riflette sul cielo capovolto che è nell’acqua. I suoni degli animali si fanno più intensi quasi a salutare il giorno che muore, poi arriva il silenzio, e il ritorno verso il lodge ha il sapore della pace e dell’armonia della natura. Il mio bungalow nel lo Xigera camp è un altro sogno, una palafitta affacciata sull’acqua dove deliziami immersa nella natura con tutte le comodità della civiltà. Ultimo volo di soli 15 minuti per atterrare in un’altra area più remota del delta dell’Okavango, meno immersa nell’acqua ma altrettanto e forse ancor più ricca di animali; al Tubu Tree Camp è di nuovo eating safari con early bird, breakfast, spuntino itinerante, brunch, lunch, the delle cinque, cena, afterhour, e di nuovo safari in jeep, con un bellissimo incontro con un gran branco di elefanti che circondano la macchina e ciondolano le loro teste sgranocchiando foglie dagli alberi ,compreso un delizioso elefantino che succhia il latte dalla mamma con la bocca mentre gioca con la proboscide di cui ancora non ha imparato bene l’utilizzo. Stiamo solo attenti che mamma elefantessa non si preoccupi per il piccolo e che un giovane maschio in calore (questo fatto si può desumere dal liquido secreto da una ghiandola sulla tempia( non sia troppo irritabile per gli scombussolamenti ormonali. Guida il branco la più vecchia elefantessa, riconosciuta come indiscusso capo, con la pelle pendente per i molti parti e le zanne un po’ rovinate (gli elefanti cambiano zanne sette volte nella loro vita, le ultime sono ahimè quelle definitive e quando cadono diventa difficile sostentarsi. Ma l’ultimo e più emozionante incontro è con due superbi leopardi, madre e figlio, sdraiati su un albero proprio sopra le nostre teste ed intenti a spolpare la carcassa di un impala appena cacciato. Mangiano e dormono un po’ digerendo con una respirazione affannata il loro lauto pasto, poi riprendono a mangiare. Quando ripassiamo la sera, la famigliola è ancora lì a tavola, e addirittura il leopardino prende la preda tra le fauci e se la sposta più comodamente a terra, a due metri dalla nostra macchina, producendosi in un ruggito da manuale rivolto verso l’obiettivo della mia macchina fotografica. Ecco una preda onorevole per concludere il mio safari. Aggiungo altre prede imperdibili: cestino fatto a mano davanti a me dalle cameriere del lodge con paglia essiccata e tinta con vari colori naturali, un portavasi intrecciato come un nido d’uccello (che in aeroporto mi fanno spacchettare fino all’ultimo per accertarsi che non l’abbia rubato da sotto il portapenne di un volatile), un uovo di struzzo, una specie di zanzariera con il bordo di perline che fa da copritavola ed altre amenità del genere. L’ultima cena è un barbeque intorno al fuoco, che permette di fare conversazione con la varia umanità in prevalenza americana che frequenta queste zone, e che va da un gruppo di sciroccate in cerca di emozioni forti che bevono superalcolici sfidando un altro turista appena conosciuto a dipingersi le palle di blu se molla prima di loro, ad una signora ingioiellata con figlio ventenne sosia del padrone di Scooby-Doo disadattato, ad una coppia di ebrei newyorkesi con rara sensibilità nel commentare le dinamiche socio-politiche americane ed internazionali, ad un indiano trapiantato in California che viaggia con un gigantesco teleobiettivo che lo sbilancia in avanti e che gli invidiamo molto. Sono la fauna domestica che fa parte di questo viaggio né più né meno della fauna selvaggia che sta annidata nel buio pochi metri oltre quel falò, e per me sono forse ancora più interessanti.
giorno 9: MAUN-JOHANNESBURG- ROMA
Peccato, il viaggio è finito. Ultimo volo per Maun dove saluto Ole che torna per qualche giorno dalla sua famiglia, prima di rimettersi in viaggio. Poi aereo per Johannesburg al cui aeroporto ho ancora il tempo di farmi fregare 10 dollari da un finto controllore che mi promette di chiudere un occhio sullo scudo che mi sto trascinando dietro come bagaglio extra e poi si toglie il falso cartellino e sparisce sotto al cartello “il governo combatte la corruzione, se qualcuno vi chiede soldi segnalatelo subito”; ma non me la prendo, sono troppo contenta, e sono dieci giorni che sono lontana da tutto ciò, tanto, tanto lontana.
Post Scriptum
ODE AL BOTSWANA
Come summa filosofica del viaggio, ho partorito la seguente imperdibile canzoncina demenziale, di cui sono troppo fiera per non riportarne il testo a memoria delle future generazioni:
E’ bellissimo il Botswana
ma la vita non è sana
e quaggiù nella savana
C’è una fauna un poco strana.
C’è l’impala e c’è lo gnu,
con le corna tutte in su,
se lo incontri a tu per tu
non lo dimentichi più.
Attraversi sulle strisce
ma la zebra non gradisce,
la giraffa col suo collo
ti sputacchia un cibo mollo.
Mentre ammiri la gazzella
che ti appare molto bella
si avvicina a te un babbuino
che si frega il tuo calzino.
Mentre segui le sue impronte
t’ inchiappetta un po’ il bisonte,
mentre vaghi dolorante
ti si fa anche l’elefante,
col suo uccello interessante.
Cerchi scampo nel canale
ma ti scruta un animale:
un coccodrillo puoi vedere
che ti morde sul sedere.
Ti rifugi su un ammasso
che assomiglia a un grosso sasso,
l’ippopotamo ti acchiappa
e ti frolla l’altra chiappa.
Mentre urli a squarciagola
c’è qualcosa che già vola,
un’anofele insistente
ti si infila in mezzo al dente,
ti pulisci inutilmente:
non è erba ma un serpente.
Poco dopo quatto quatto
si avvicina un grosso gatto
ma ti accorgi al primo mieo
che non ama il galateo:
è un leopardo un po’ infingardo
che ti spolpa tutto il lardo,
e poi arriva anche il leone
che ti mangia in un boccone;
sopraggiunge anche la iena
che ti sbrana sulla schiena,
poi ti passa allo sciacallo
che ti lascia solo il callo,
e ti serve sul vassoio
per la cena all’avvoltoio,
finchè un bel rinoceronte
ti spedisce da Caronte.
Ti traghettan sul mokoro
diavoletti tutti in coro,
ti risvegli orribilmente
nell’inferno del lavoro!
Queste sono quelle esperienze che restano per sempre. Quel ragazzo con la pancia gonfia e i piedi scalzi che ti ha fatto da guida credo non lo dimenticherai mai per davvero, così come la meraviglia della natura che ti ha circondata durante il viaggio. LA mia unica paura sono gli animali. Per quanto stupendi sono veramente in piena libertà ed io a quel piccolo inseguimento a cui avete assistito sarei morta dallo spavento!
Il viaggio dei miei sogni, da quando da bambina divoravo i romanzi di Wilbur Smith. Complimenti per le foto e per tutto, ma la ienina è davvero il plus di tutto l’articolo. Troppo tenera <3
L’Africa è un luogo che ti entra nel cuore. Quando ci siamo atterrati per la prima volta ci siamo sentiti accolti nel ventre della Madre Terra ed è così ogni volta che ci torniamo. PS La tua canzoncina fa un sacco ridere!
Il Botswana fra tutti i miei viaggi africani forse è quello che piu mi è piaciuto, perchè più selvaggio,piu avventuroso, più vero. Ho letto con piacere le tue emozioni e mi sono ritrovata in tutto. L’africa difficilemente resta indifferente
Ho trovato molto interessante la storia del tuo pilota. Sono sempre molto affascinata dai vissuti delle persone che incontro.
Complimenti per l’itinerario, deve essere stato proprio un bel viaggio 🙂 Io quest’anno sono stata in Sudafrica e il safari mi è rimasto nel cuore e stavo proprio pensando ad un secondo in Botswana! la famiglia di leopardi deve essere stata super emozionante da vedere!